La sindrome dell’apparenza

La sindrome dell'apparenza | René Magritte (1898-1967), Il pellegrino, 1966
René Magritte (1898-1967), Il pellegrino, 1966

 

Non accendeva il ferro da stiro da quella sera in cui, sola in casa, aveva sintonizzato su uno dei tanti programmi spazzatura e raso al suolo, tutta in una volta, la pila di indumenti che la guardava sbieca da settimane.

Erano trascorsi molti mesi dall’ultima volta e proprio quel mattino, poco prima di uscire, decise che doveva assolutamente togliere le pieghe da quel tessuto così delicato che si sgualciva al solo sguardo.
Fece tutto più lentamente poiché aveva perso un po’ di pratica: si dice che una volta imparato ad andare in bicicletta non si scorda più, vero anche per lo stirare.

Versò l’acqua, inserì la presa e attese che l’arnese andasse a temperatura. Poi si diede da fare, mettendoci un bel po’ di olio di gomito.
Quelle linee erano davvero ostinate e determinate a restare lì dove si trovavano, nonostante il suo impegno rasentasse l’accanimento. Segnavano la maglia come rughe sulla pelle, intatte e vetuste, rinnovate ad ogni vano tentativo.

D’un tratto scattò dentro di lei l’automatismo del vapore.
Con un gesto rapido spostò l’indicatore sullo sbuffo con la nuvoletta più piccola e il danno fu immediato ed irrimediabile. In agguato da tempo immemore, il calcare incrostato stava per aggiungere nuove striature al capo.

E così fu.
Sulla schiena comparvero quattro scie biancastre e parallele, di spessore irregolare, che portavano dal centro delle spalle verso il basso.

Un errore fatale.
Il panico s’impadronì dell’intera casa.

Lasciò tutto così com’era: l’asse vicino al tavolo, la maglia sull’asse, il ferro sul tavolo, accanto alla scatola di cartone da cui era uscito.
Si precipitò in camera e spalancò ante e cassetti. Lo stato di allerta era decisamente alto.
Passò rapidamente in rassegna il guardaroba: i capi comparivano nella sua mente a raffica, traghettati da lunghi nastri trasportatori, e si combinavano come in un gira-la-moda attraverso un vortice ingarbugliato di corsie diversificate tra intimo, completi, gonne, pantaloni, e ancora camicie, cardigan, giacche, scarpe e accessori di ogni tipo. Tutto ad una velocità supersonica.
Iniziarono a materializzarsi cumuli di indumenti sul letto, sulla poltrona e persino sul pavimento.
Gli appendini avevano invaso ogni gancio cui potevano aggrapparsi, qualsiasi appiglio andava bene pur di non scomparire nuovamente sul fondo buio e tetro dell’armadio per i secoli a venire. Ogni abito reclamava la sua mezz’ora d’aria.

Ormai non aveva più tempo e, nonostante fosse totalmente accerchiata, non trovava nulla da poter indossare: ogni capo presentava un difetto insormontabile.
Il sudore si impadronì del suo corpo, freddo e lento giù per il collo, lasciandosi dietro scie maleodoranti. Non poteva proprio uscire di casa in quelle condizioni. Una doccia calda, velocissima, era quello che ci voleva.

In quel momento, con la coda dell’occhio, vide qualcosa spuntare da dietro il cappotto, quello arancio che aveva acquistato un paio di stagioni fa per presenziare alla laurea del cugino dell’ex fidanzato.
Sì, il colore poteva andare, era un tono fra il grigio l’azzurro o il viola, non si vedeva bene là dentro.. Ma che cos’era? Non ricordava niente di simile nel suo guardaroba. Un prestito di sua sorella? Il regalo di un’amica? Un passaggio di proprietà di qualche zia?
L’unica certezza era il fatto che poteva rappresentare la sua ancora di salvezza, la soluzione ideale.
L’odore della paura che prima permeava nell’aria si era già trasformato nel profumo della vittoria.
Avanzò imperterrita verso quel barlume di speranza, aprendosi un varco in mezzo al caos.
Continuava a camminare, con la mano tesa in avanti e le dita frementi, vicinissima, fin quasi a toccarlo.
Ora non sentiva più il freddo e non si curava del tempo che scorreva via inesorabile, l’ansia che l’attanagliava si era miracolosamente sciolta.
Quella nuova atmosfera intima ed avvolgente era un caldo invito ad entrare e rimanere per sorseggiare un infuso alla frutta.
Afferrò l’attaccapanni. Chiuse gli occhi. Rilassò le membra e sentì il suo corpo molle adagiarsi alle forme intorno, penetrare la materia ed adattarvisi all’unisono.
Il mondo si dissolse in un tocco.

Rinvennero una stoffa color del cielo, intrisa del suo odore.

 


2 thoughts on “La sindrome dell’apparenza

  1. Il Cervello Bacato (@CervelloBacato1) Rispondi

    Posso dire che questo mi è piaciuto tantissimo?! Lo dico lo dico! Wow! Letto tutto d’un fiato (e immaginando la tua voce, ahah) e ammetto che il finale mi ha stupito. Non me l’aspettavo 😉

    1. alicetraforti Rispondi

      Grazie Davide! Dillo tantissimo a tutti eh eh 😉
      Il finale non me l’aspettavo neanch’io, ed è per questo che amo follemente scrivere..

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